Milano, 22 agosto 2017 - 11:00

Elena Zambon: «Voglio triplicare,
ma a 65 anni lascio»

Superato il centenario, l’azienda farmaceutica cambia pelle: sempre più specializzata nelle malattie gravi come il Parkinson e sempre più internazionale. Con un vertice completamente nuovo dove gli azionisti fanno solo gli azionisti

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Si può ben dire che sia stata una nuova partenza. Elena Zambon lo sostiene ogni volta che può che le aziende occorre riconquistarsele. Lo dice come presidente di Aidaf, Associazione delle aziende familiari che guida dal 2013. E non può non praticarlo per l’azienda della sua famiglia, Zambon, 713 milioni di euro di ricavi nel 2016, l’anno che ha segnato — appunto — quello che lei definisce «l’inizio di un rinnovato cammino».

In concreto cosa significa?

«Tre cose, l’una conseguente all’altra. La prima: essere sempre di più un gruppo specializzato nelle patologie severe come il Parkinson o la fibrosi cistica, che colpiscono molte persone nel mondo. La seconda: diventare un gruppo globale puntando anche sugli Stati Uniti, dove i frutti della ricerca vengono riconosciuti, e sui pharma emerging markets, ovvero Cina, Brasile, Colombia e Messico dove da lungo tempo siamo già presenti. L’ultima: triplicare le dimensioni in dieci anni, anche grazie ad acquisizioni...»

...State trattando? Con chi?

«Abbiamo trattative in corso, sì. Ma sono informazioni sensibili essendo con realtà quotate. Aspiriamo a raddoppiare il nostro fatturato nei prossimi dieci anni riducendo sempre più il peso del mercato italiano già contenuto. Abbiamo appena approvato il piano strategico in consiglio di amministrazione. Naturalmente il nostro headquarter, la testa, resterà in Italia».

Avete rinnovato tutto il vertice.

«È stato necessario per il cambiamento che abbiamo in mente. Dall’anno scorso abbiamo un nuovo amministratore delegato, Roberto Tascione, e anche una prima linea completamente diversa. In parallelo, abbiamo rafforzato funzioni centrali essenziali».

Avete anche creato uno «strategic board» che affianca il cda. Perché?

«Ci aiuterà a fare le scelte migliori. Abbiamo ambizioni di grande respiro, ma veniamo da una solida tradizione. Già nell’83 Zambon aveva una forte presenza di manager non familiari nei ruoli centrali e negli stessi anni aveva aperto il proprio cda ad amministratori indipendenti come Marco Vitale, o Paolo Pagliani ex ceo di Bayer Italia che divenne poi anche presidente di Zambon. Ancor prima, nella generazione dei fondatori, in cda c’era anche un amico competitor, Emilio Ghirardi fondatore della Simes. Anche se poi, curioso il destino, divenne pure il consuocero di nostro nonno e fu per anni anche lui presidente di Zambon».

Vi siete dati un modello americano.

«Il vantaggio della cultura americana, che ho potuto conoscere e vivere da vicino anche professionalmente in Citibank nel periodo di massimo splendore, è che ha un sistema di regole intelligenti e non rigido. Una responsabilità della famiglia proprietaria è capire quando si può rischiare quella certa mossa, come abbiamo fatto ripensando a tutta la prima linea. Un uomo da solo oggi non può farcela».

Nemmeno se è la proprietà?

«Ancora meno. E non solo perché come famiglia siamo per la separazione assoluta tra i ruoli: se ti fai prendere dal day by day sei meno lucido nel vedere la prospettiva strategica e il tuo ruolo di azionista. Ma anche perché per quanto uno si sforzi di voler essere dall’altra parte col management, non può mai esserlo davvero: il linguaggio di azionista e manager è diverso».

In che senso?

«Ho iniziato una carriera fuori dall’azienda di famiglia e forse mi ero illusa che questo mi potesse permettere anche di capire meglio che cosa significa essere dirigente, sentendomi dalla parte del management. Non è così. Se io dico una cosa sbagliata, tutti eseguono perché sono l’azionista. Insomma, la separazione tra azionista e management deve essere netta, anche quando un azionista ha esperienze e competenze manageriali».

Non è facile essere manager in una impresa di famiglia.

«Tra azionista e top management serve un patto di fondo: dirsi sempre la verità. Altrimenti come imprenditori si rischia di diventare autoreferenziali e dopo una certa età questo rischio aumenta. È il motivo per cui il cambio generazionale va pensato in tempo utile lasciando tutte le cariche».

Lei che cosa farà?

«Spero di avere la lucidità di lasciare a 65 anni e ritirarmi per dare spazio ad altri, che a loro volta ripensino l’azienda rinnovandola per tenere il passo coi cambiamenti e le novità del proprio tempo. Per essere contemporanei».

Avete già un piano di successione?

«I nostri figli sono ancora piccoli, ma abbiamo iniziato un programma di coinvolgimento e formazione, con Aidaf. Una sorta di induction per le nuove generazioni che avvicini i più giovani ai valori e, soprattutto, alle responsabilità da azionisti di domani ».

Avete compiuto 110 anni, terza generazione. Com’è l’assetto azionario?

«La nostra è una famiglia numerosa e prolifica perché già alla fondazione erano in 5 azionisti e poi divennero 4 rami familiari. Ai festeggiamenti per i 100 anni, tanto per avere un’idea, eravamo 250 parenti, pur non essendo ovviamente tutti azionisti. Negli anni ‘90 la compagine societaria era composta da 27 cugini di età diverse e quando, nel ’99, abbiamo optato per la separazione dei ruoli l’azionariato si è ridotto e concentrato. È stato come riscegliere l’azienda: abbiamo messo mano al portafoglio e oggi siamo in 4 fratelli azionisti, cresciuti tutti allo stesso modo e con la stessa propensione al rischio, oltre ad una grande passione per questa azienda: ci permette di prendere decisioni con quella velocità che il business oggi richiede e che è in continua accelerazione».

Però, continuate a non pensare a una quotazione.

«La Borsa non deve essere di per sé un’ambizione, ma è strumentale ad accompagnare i progetti di crescita, come fonte di finanziamento. Se non hai progetti non serve. Anche perché poi sei misurato con un attenzione spasmodica ai risultati di breve periodo sottovalutando l’importanza di guardare alla crescita di valore di medio e lungo termine, fondamentale per un settore come il nostro in cui la ricerca di molecole richiede tempi lunghi».

Le nostre aziende sono ancora lontane dalle multinazionali. Lei sarebbe favorevole a una grande alleanza nella farmaceutica italiana?

«Nel nostro caso, e in questo particolare momento, no. Grazie agli investimenti fatti, nel 2012 siamo saliti su un «treno» che è la nuova molecola, la Safinamide per la malattia di Parkinson. Ci ha consentito di entrare nel mercato delle patologie severe, in particolare del sistema nervoso centrale dove da anni non uscivano novità di ricerca per la cura di questa malattia degenerativa. Attorno a questo prodotto abbiamo costruito tutto il progetto di cui abbiamo parlato, perciò oggi direi no a una grande aggregazione italiana. Ma poiché predico sempre l’importanza di essere un’organizzazione aperta, credo che si potrebbero realizzare partnership su progetti specifici di tipo industriale, di ricerca o commerciale».

Sul fronte dell’impresa-famiglia a che cosa bisogna stare attenti?

«A non fermarsi a guardare ciò che si ha da perdere, altrimenti non si lascerà mai la vecchia strada per la nuova. È il rischio delle aziende familiari, come di tutte le aziende in generale. Troppo benessere può anche far male».

Ce la farà Milano ad avere l’Ema, l’agenzia del farmaco europea che dovrà lasciare Londra causa Brexit?

«Sì, se la decisione si baserà sugli elementi tecnici: le competenze e le opportunità che il nostro Paese offre, per esempio con il Tecnopolo che entro il 2023 dovrà assumere .1500 persone di altissimo profilo. Se, invece, diventa un gioco politico… Ma sono ottimista, bisogna esserlo. L’offerta del Pirellone da parte del governatore Maroni è stato un grande gesto e con Assolombarda stiamo lavorando ad alcune iniziative, tra cui un’alta scuola di specializzazione in discipline farmaceutiche e regolatorie di profilo internazionale, un master di alto livello che si farà in ogni caso. C’è un importante lavoro di squadra anche a livello di governo per sostenere questa posizione in qualunque sede istituzionale. Il nostro è un Paese che funziona quando ha dei progetti su cui misurarsi e anche l’Europa avrebbe bisogno di tornare a confrontarsi su progetti concreti».

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